Remo Gaibazzi

Lavori in corso




Pittore -- Grafico

Remo Gaibazzi. Gaibazzi nasce in provincia, a Stagno di Roccabianca nel 1915 e morirà a Parma, dopo una difficile malattia, nel 1994, nella sua casa dietro il Battistero di Benedetto Antelami.
Negli anni '30 Gaibazzi disegna come Novello oppure come Garetto e produce pezzi di una sottile, un poco amara, ironia, fondati sulla iperbole delle forme. Ma nel dopoguerra ecco la rivoluzione: Steinbèrg e la sua scrittura più dipanata, più ironica, portano Gaibazzi, lentamente, dalle caricature al racconto di una nuova storia. Quella di una città, la sua città, che egli vede come quella di tante altre, piccole città di provincia: il suo non è il "Mondo Piccolo" di Guareschi e neppure la Luzzara mitica di Zavattini, ma è una città diversa, quella degli emarginati e delle case escluse, la città degli intonaci cadenti, dove si consuma la vita dei poveri, e dei panni appesi, la città dei personaggi fermi alle cantonate ad aspettare un evento che non ci sarà, immobili in vuoti spazi memori della Metafisica, ma che dentro portano un rovello. Remo Gaibazzi è un pittore, un intellettuale, con una lunga storia, una storia che va ricondotta a quella del dibattito sull'arte in Italia dagli anni '50 in avanti. Gaibazzi è per molti di coloro che l'arte la studiano attraverso i media, oppure sui cataloghi delle case d'asta, una figura poco conosciuta, ma per tanti, tantissimi altri, per coloro che lavorano sulla scrittura, per coloro che sono attenti all'arte come lavoro, per coloro che si interessano dei problemi del linguaggio, Remo Gaibazzi è una figura chiave. Gaibazzi, che disegna per "Paese Sera", ma che alla fine rinunzia a trasferirsi presso il "Corriere della Sera" a Milano, Gaibazzi utilizza adesso -siamo negli anni '50- alcuni temi dell'Espressionismo, ripercorre Heckel e Kirchner e la loro grafica, e poi usa Grosz e la Nuova Oggettività tedesca: li usa tutti come strumenti per modificare la sua lingua, per trasformarla in strumento di una critica acuminata, impietosa E cosi diventa impopolare, le sue immagini che erano ironiche dissacrazioni della borghesia hanno adesso per protagonisti gli spazi di una città, spazi assoluti, senza tempo, spazi di borgo, spazi di casa, di ringhiera, spazi dove lo sguardo è basso, sulle cose, il tutto graffito a china, su bianchi fogli che lentamente il pittore viene coprendo con la sua scrittura. Poi Gaibazzi si confronta con la cultura della comunicazione e affronta il problema dei media come strumento da usare, non da respingere: non sta con llorkheimer e con Adorno e riflette su Marcuse e ama su tutti Walter Benjamin. E dunque crede nella rivoluzione di Warhol e degli altri Pop, ma unita alla dimensione dell'angoscia che Francis Bacon viene suggerendo sulle scene di una pittura sempre più attenta al tema dello spazio. Ed è questo che a Gaibazzi deve essere piaciuto, lo spazio che chiude addosso, opprime, lo spazio che si consuma nel nero della stampa su tela e che varia con la scelta dei formati: siamo attorno al 1960. Poi viene il tempo dei grandi quadri colorati, strutture note, una cupola, un profilo di tetti della cattedrale, oppure un'ala della Pilotta, oppure una griglia di finestre del suo Battistero, quadri che escono dalla civiltà dell'astrazione europea, da Max BilI o da Johannes Itten a Luigi Veronesi, da Mauro Reggiani a Fausto Melotti. Una astrazione che Gaibazzi riconduce sempre a una struttura, a un archetipo, a un oggetto noto a tutti quelli che lo conoscono